Stalking sui social media, divieto di avvicinamento per l’ex marito

Stalking sui social media Tempo di lettura stimato: 5 minuti
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Avv. Marco Trasacco | Per la Suprema Corte è corretta l’applicazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa in relazione all’imputazione provvisoria di atti persecutori in danno di un ex, reiteratamente minacciata e molestata con continue e asfissianti comunicazioni a mezzo telefono, facebook e whatsapp, così cagionandole un perdurante stato di ansia e di paura (Cassazione penale, sez. V, 16/02/2018, (ud. 16/02/2018, dep.16/05/2018),  n. 21693).

Nello specifico, i Giudici della Cautela hanno valorizzato, ai fini della sussistenza del reato di stalking,  due messaggi minacciosi, il primo dei quali prospettava “un macello” qualora l’indagato si fosse accorto che il figlio si trovava insieme con la persona offesa e con “quell’altro” (ossia, il suo nuovo compagno), mentre il secondo si riferiva al dar fuoco ad un lettino, evidenziando come le condotte avessero causato nella stessa persona offesa un evidente stato di timore.

La Corte, inoltre, ha ritenuto irrilevanti i rilievi del ricorrente in ordine al presupposto della gravità in quanto “…manifestamente infondata è la deduzione che le minacce non si sono “concretizzate”…“,


In seguito la sentenza per esteso

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente –
Dott. CAPUTO Angelo – rel. Consigliere –
Dott. TUDINO Alessandra – Consigliere –
Dott. SCORDAMAGLI Irene – Consigliere –
Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
D.E., nato il (OMISSIS);
avverso l’ordinanza del 17/10/2017 del TRIB. LIBERTA’ di ROMA;
sentita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO CAPUTO;
Udito il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso
questa Corte di cassazione dott.ssa M. G. Fodaroni, che ha concluso
per l’inammissibilità del ricorso;
Udito altresì per il ricorrente l’avv. M. Savini, che ha concluso
per l’accoglimento del ricorso.

Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza deliberata il 17/10/2017, il Tribunale del riesame di Roma ha confermato l’ordinanza del 29/09/2017 con la quale il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Roma aveva applicato a D.E. la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa in relazione all’imputazione provvisoria di atti persecutori in danno di C.A., reiteratamente minacciata e molestata con continue e asfissianti comunicazioni a mezzo telefono, FB e whatsapp, così cagionandole un perdurante stato di ansia e di paura.

2. Avverso l’indicata ordinanza del Tribunale del riesame di Roma ha proposto ricorso per cassazione D.E., attraverso i difensori avv. M. Savini e avv. P. Monastero, denunciando – nei termini di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1, – vizi di motivazione. Le minacce ascritte all’indagato non si sono mai concretizzate e, comunque, si è trattato di un solo episodio (“faccio un macello”) risalente ad un anno e sette mesi prima dell’adozione della misura cautelare, laddove l’altro episodio (“salgo e ti brucio il lettino”), risalente al (OMISSIS), riguarda un bene materiale appartenente alla persona offesa e presente nella soffitta dell’ex marito. Diversamente da quanto sostenuto dall’ordinanza impugnata, prima della separazione non vi era stato alcun comportamento negativo da parte del ricorrente, laddove lo stato di agitazione e timore indicato dal Tribunale del riesame non emerge da alcun dato processuale e, sull’evento del reato, l’ordinanza impugnata è viziata da mancanza di motivazione, vizio che investe anche il requisito dell’attualità della condotta, posto che i messaggi richiamati risalgono a un anno e sette mesi e a un anno prima dell’emissione dell’ordinanza applicativa; la querela è tardiva, sia considerando il reato di minaccia, sia considerando quello di atti persecutori, posto che le condotte minacciose integranti detto delitto risalivano a 12 – 16 mesi prima della presentazione della querela stessa. L’ordinanza impugnata è anche priva di motivazione in ordine alla denunciata mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ordinanza genetica.

Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.

L’ordinanza impugnata ripercorre, sulla scorta dei dati indiziari tratti dal racconto, ritenuto credibile, della persona offesa, i fatti salienti oggetto dell’imputazione provvisoria, ossia i plurimi messaggi offensivi, molesti, minacciosi indirizzati dall’indagato alla persona offesa nel considerevole periodo indicato in querela (dal gennaio 2016 all’aprile 2017) e nelle successive dichiarazioni del 07/08/2017: in particolare, il giudice del riesame sottolinea due messaggi minacciosi, il primo dei quali prospettava “un macello” qualora l’indagato si fosse accorto che il figlio si trovava insieme con la persona offesa e con “quell’altro” (ossia, il suo nuovo compagno), mentre il secondo si riferiva al dar fuoco ad un lettino, evidenziando come le condotte avessero causato nella stessa persona offesa un evidente stato di timore. A fronte della motivazione in sintesi richiamata, i rilievi del ricorrente in ordine al presupposto della gravità indiziaria sono inammissibili: manifestamente infondata è la deduzione che le minacce non si sono “concretizzate”, ossia non siano state accompagnate da reati ulteriori rispetto a quello di atti persecutori contestato, laddove il riferimento all’epoca delle minacce stesse – che il giudice del riesame ha descritto tenendo distinti i due diversi episodi sopra richiamati – può venire in rilievo sul piano del presupposto cautelare, ma non inficia la tenuta del provvedimento impugnato sotto il profilo degli indizi ex art. 273 c.p.p.; l’aggravamento della condotta persecutoria successivamente alla separazione e alla conoscenza, in capo all’indagato, della relazione allacciata dalla persona offesa è argomentato dal Tribunale del riesame sulla base delle sommarie informazioni rese dalla donna, a fronte delle quali la deduzione difensiva non articola alcun travisamento probatorio, risultando, sostanzialmente, versata in fatto; quanto allo stato d’ansia o di timore della persona offesa, l’ordinanza impugnata lo ha dedotto, in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante (Sez. 5, n. 24135 del 09/05/2012, Rv. 253764; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, Rv. 269621).

Manifestamente infondate sono le censure relative al presupposto cautelare, in quanto l’ordinanza impugnata ha dato conto dell’attualità del periculum, in termini coerenti ai dati indiziari richiamati e immuni da vizi logici, sulla base della reiterazione degli atti persecutori, oltre che della loro attualità (facendo riferimento l’imputazione provvisoria alla protrazione dei fatti fino al 07/08/2017). Il ricorrente fa leva esclusivamente sulle condotte minacciose, così erroneamente circoscrivendo l’ambito dei fatti suscettibili di assumere rilievo ex art. 612 bis c.p.: erronea prospettiva, questa, che priva altresì di consistenza la doglianza circa l’epoca della querela, alla luce del tegipus commissi delicti indicato nell’imputazione provvisoria, ma anche facendo riferimento ai soli atti persecutori descritti in querela (fino ad aprile del 2017).

Inammissibile, per plurime ragioni, e, infine, la censura relativa all’omessa autonoma valutazione da parte del G.I.P.; per un verso, essa non è stata devoluta al giudice del riesame e, come questa Corte ha giù avuto modo di ribadire dopo la novella di cui alla legge n. 47 del 2015, non può essere rilevata per la prima volta in sede di legittimità la nullità derivante dalla mancanza degli elementi di identificazione dell’ordinanza cautelare previsti dall’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. b), trattandosi di nullità relativa, disciplinata dalle regole generali in tema di deducibilità e segnatamente dall’art. 181 c.p.p., u.c., con la conseguenza che essa deve essere eccepita con l’impugnazione dell’ordinanza applicativa dinanzi al Tribunale del riesame, restando altrimenti preclusa la sua deducibilità e la sua rilevabilità (Sez. 5, n. 4618 del 29/12/2015 – dep. 2016, Rv. 266054); per altro verso, la doglianza è articolata dal ricorrente non già sulla base della doverosa considerazione delle valutazioni esplicate dall’ordinanza applicativa in merito ai requisiti prescritti dall’art. 292 c.p.p., ma con esclusivo riferimento ad alcuni, specifici elementi indiziari.

Alla declaratoria d’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla Cassa delle ammende della somma, che si stima equa, di Euro 2.000,00. L’inerenza della vicenda a rapporti di convivenza di tipo familiare impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 a favore della Cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto d’ufficio.

Così deciso in Roma, il 16 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2018


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